Carla Langella è Architetto, Designer, Dottore di Ricerca e Professore Aggregato di Disegno Industriale (ICAR 13) presso il Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale DADI, dove insegna “Bio-innovation Design” e “Design per la Visualizzazione Scientifica” nel Corso di Laurea Magistrale in “Design per l’Innovazione” e “Laboratorio di industrial Design I” nel Corso di Laurea triennale in “Design e Comunicazione”.
Insegna anche “Laboratorio di design del prodotto e della comunicazione 1” nel Corso di Laurea magistrale in “Design del prodotto e della comunicazione visiva” presso l’Università IUAV di Venezia.
Dal 2006 ha fondato, e coordina tutt’ora, l’Hybrid Design Lab, laboratorio progettuale dedicato al rapporto tra design e scienza con particolare attenzione alla sperimentazione della biomimetica nel design ed all’integrazione dei designer nei processi di sviluppo dei nuovi materiali a cui è dedicato lo specifico progetto Designer in lab.
Nella sua attività di ricerca indaga sulle opportunità di costruire percorsi di innovazione sostenibile che coinvolgano nel progetto i contributi scientifici più avanzati e le attitudini degli utenti. Nei suoi progetti c’è sempre una commistione tra artigianato e innovazione, così come una cooperazione tra design e scienze, in particolare le bioscienze.
Perché per lei fare design significa farsi ispirare dalla natura e dalle sue regole, per creare prodotti belli ma anche funzionali e utili alla comunità.
Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua, interessante, storia. Buona lettura!
Da dove inizia la tua storia?
Da subito dopo il liceo credo. Mi sono iscritta alla Facoltà di matematica, ho seguito i corsi per un anno, ho dato il mio primo esame e ho preso un bel 30, ma non ero felice. Mi mancavano la componente umanistica e quella concreta.
Adoravo disegnare così decisi di partire da questa passione: mi iscrissi ad Architettura, andai a visitare un dipartimento e fu lì che feci due incontri essenziali per la mia scelta: conobbi la prof. Virginia Gangemi (con cui alcuni anni dopo mi sono laureata) e il prof. Roberto Mango che mi affascinò talmente tanto con i suoi racconti sul design e sui suoi protagonisti che decisi dedicarmi al Disegno Industriale.
In seguito, questi elementi sono confluiti nella mia ricerca e nella mia vita.
Il mio intento è portare il metodo scientifico e il rigore della scienza nel mondo del design. Il design, di per sé, è sogno, prefigurazione, un modo come scrive di trovare soluzioni alle frustrazioni delle persone, non solo ai bisogni ma a quello che dentro di noi sappiamo che non ha ancora una risposta soddisfacente. Ma, affinché le risposte del design siano innovative, efficaci e sostenibili il design deve cooperare con le scienze e in particolare con le aree più avanzate della scienza, le bioscienze che riguardano la vita e che sono anche quelle più creative, seppur rigorose, quindi più affini al mondo del progetto.
Com’è nata la passione per quello che fai?
Nel mio percorso di dottorato sono stata seguita dalla Prof. Gangemi e dalla Prof. Ranzo che mi hanno introdotta alla cultura del progetto, alle tematiche della sostenibilità e alle opportunità del progetto integrato con la biologia.
All’epoca la prof. Francesca La Rocca aveva pubblicato un bellissimo libro sul rapporto tra architettura e biologia. Durante la ricerca ho scelto di occuparmi di nuovi materiali e ho collaborato con il dipartimento di Tecnologia dei materiali della Federico II. Lì ho scoperto i biomateriali e l’approccio bioispirato impiegato nel progetto di nuovi materiali.
Successivamente ho conosciuto il centro di biomimetica di Reading, uno dei più importanti al mondo, ho incontrato il direttore dell’epoca, George Jeronimidis, e ho iniziato a collaborare con Carlo Santulli, che allora lavorava per il centro ma oggi insegna in Italia e Petra Gruber.
All’epoca c’era molta ricerca sui materiali, sugli ambiti ingegneristici come l’ingegneria meccanica o robotica, ma il design guardava alla natura soprattutto limitandosi a guardare gli aspetti estetici.
A me, invece, interessa il trasferimento di funzionalità, la costruzione di analogie tra le domande progettuali e le risposte della natura a esigenze del vivere, come quelle di adattamento.
Cosa significa fare design bioispirato?
Per me significa conoscere a fondo i principi, le logiche e le strutture della natura per trasferirle al progetto di prodotti, ma anche di dettagli, soluzioni a problemi specifici.
Ritengo che non si possa fare design bioispirato in modo rigoroso e serio senza collaborare direttamente con i biologi. Non biologi qualsiasi ma professionisti aperti e flessibili, in grado di entrare in risonanza con il progetto come Valentina Perricone la biologa che sta svolgendo un dottorato sul design bioispirato con me e con il suo tutor biologo Mario De Stefano, bravissimo esperto di Diatomee con cui ho la fortuna di collaborare da molti anni.
In che modo, nel tuo lavoro, trovi il punto di incontro tra design, tecnologia e artigianato?
La sperimentazione la modellizzazione dei sistemi naturali, che chiamiamo nature modelling, e che ci consente di comprendere a fondo il funzionamento della natura, lo sviluppo di nuovi materiali ispirati alla ciclicità e alla qualità di gerarchizzazione, porosità e stratificazione, tutte le fasi di mockup dei progetti, e infine la fabbricazione digitale (che ci piace integrare con materiali e tecniche tradizionali e locali) dei prodotti finali sono parti del nostro lavoro in cui il metodo artigianale fondato su prove, valutazioni percettive della materia, manualità, pezzi unici, piccole serie, valorizzazione dell’esperienza, intuizioni, empatie, assumono una grande importanza.
Inoltre amiamo collaborare con gli artigiani, con gli artisti-artigiani come il maestro vetraio Luciano Romualdo e la ceramista Anna Maglio con cui abbiamo realizzato dei pezzi bellissimi.
Cosa, secondo te, può offrire un percorso di innovazione oggi agli artigiani? Cosa gli consiglieresti?
Tante cose. Prima di tutto di guardare con occhi sempre nuovi alle nostre radici: una visita al nostro museo Archeologico di Napoli MANN (a maggio riaprirà la sezione sulla Magna Grecia e MEDAARCH ha realizzato delle scansioni e stampe 3D di alcuni pezzi, per l’accessibilità dell’arte a ipovedenti e non vedenti) è una fonte di infinite ispirazioni su tecniche e approcci antichi alla produzione artigianale di manufatti in vetro, metalli, ceramica, che con le attuali tecnologie digitali e dei materiali e le più recenti conoscenze scientifiche può dar luogo a sperimentazioni artigianali meravigliose e originali.
Poi cercherei di avvicinarmi alle esigenze contemporanee delle persone e sfruttare la flessibilità dell’artigianato, la sua istantaneità per rispondere alle domande emergenti del vivere quotidiano, che derivano da come sono cambiati i contesti.
L’esigenza di sicurezza, il bisogno di svolgere le attività quotidiane in modalità itinerante, l’attenzione per il benessere e la salute, la difficoltà di adattare le relazioni personali alle infrastrutture tecnologiche in continua evoluzione, le trasformazioni dei nostri corpi forzate dai nuovi strumenti di vita e di lavoro, sono alcune delle piccole-grandi rivoluzioni che caratterizzano il nostro tempo e che generano moltissime di quelle frustrazioni che richiederebbero la nascita di nuovi artefatti ai quali l’artigianato, magari in collaborazione con il design potrebbe rispondere.
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